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domenica 19 maggio 2013

CHARLOTTE CORDAY- Perse la testa per un’idea di libertà. Un ritratto.

Arturo_Michelena_03
di Riccardo Alberto Quattrini.

<<A’ moi, ma chère amie!>>
Non ci poteva credere che una cittadina di Francia volesse la morte del rivoluzionario Jean-Paul Marat. <<A me questo?>> si chiese quindi.
Sono gli anni più terribili della Rivoluzione Francese. In una casa di Rue des Cordeliers, a Parigi, Jean-Paul Marat di anni 50, deputato alla Convenzione nazionale, viene ucciso con un coltello da cucina mentre si trovava nella vasca da bagno. Ad assassinarlo è stata una giovane donna di 24 anni, giunta dalla Provincia, fermamente convinta che l’uccisione di uno dei protagonisti più crudeli della Rivoluzione, avrebbe potuto fermare il bagno di sangue in atto da qualche mese.
Ma chi era questa giovane donna che con quel gesto estremo era certa che la sua sorte sarebbe stata solamente una: salire il patibolo?
Si chiamava Maria Anna Charlotte de Corday d’Armont, era nata il 27 luglio 1768 a Ligneries, piccolo villaggio nei dintorni d’Argentan. Suo padre François de Corday d’Armont, di nobiltà povera, aveva tra gli antenati Pietro Corneille, un drammaturgo e scrittore uno dei tre maggiori del XVII secolo insieme con Molière e Racine.
Alla morte della madre, avvenuta quando era ancora in tenera età, lasciando così cinque figli, Charlotte visse un’infanzia difficile anche per il disinteresse del padre nei suoi confronti. A tredici anni fu ammessa nel convento dell’Abbaye-aux-Dames di Caen famoso per il fatto di annoverare fra le sue fila soprattutto le figlie della nobiltà decaduta. Anche in convento, nonostante qualche approccio con qualche sua coetanea, scoprì ben presto che le disparità non erano mutate, se quei luoghi dovevano essere i santuari dell’eguaglianza cristiana, le discriminazioni fra ricchi e poveri erano ben manifeste, anche dentro lo stesso clero, che comprendeva preti miserabili e altri che sfoggiavano opulenza e ricchezze. Scoprì così di amare i libri, suoi veri amici. François Raynal e Rosseau caratterizzarono la sua formazione culturale. A diciannove anni, quando furono soppresse le case religiose, 13 dicembre 1790, trovò suo padre riammogliato. Si rifugiò così dalla vecchia zia madame de Bretteville, che l’accolse nella sua casa di Caen. Se fino ad allora era perfettamente concorde con gli ideali della rivoluzione, un fatto mescolò le carte del suo destino dove, in seguito, darà vita al suo disegno. Il parroco di una chiesa di Caen (lo stesso che aveva impartito l’estrema unzione a sua madre) essendosi rifiutato di prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica, inseguito dalle autorità rivoluzionarie fu scovato nel suo nascondiglio nei boschi di La Delivandre e ghigliottinato nella Place du Pilori. Fu il primo a essere ghigliottinato a Caen.
Tra il 1792-1793 Charlotte frequenta gruppi di Girondini esuli in Provincia, molti si erano rifugiati proprio a Caen, matura così una sua coscienza politica che la condurrà al gesto estremo. Tutto l’astio accumulato nei confronti di Marat, esplose il 7 luglio 1793, quando sulla Gran Cour di Caen si svolse una parata dell’esercito federalista nella speranza di attirare nelle cause federalista-girotondina il maggior numero di giovani volontari. Nei giorni precedenti diversi moniti a sostegno della causa girotondina e contro il sanguinario Marat, furono urlati nelle piazze della Normandia e molti avvisi furono affissi sui muri. “Che cada la testa di Marat e la Repubblica sarà salvata… Purifichiamo la Francia da quest’uomo assetato di sangue… Marat vede la salute pubblica solo in fiume di sangue, ebbene allora che scorra il suo, perché deve cadere la sua testa per salvarne altre duemila”.
Si sentì così investita dal richiamo divino che concedeva una seconda opportunità, a una donna che, come Giovanna d’Arco liberò il suo popolo oppresso dagli inglesi, così lei lo avrebbe liberato da un tiranno sanguinario.
Il pretesto per intraprendere il viaggio a Parigi, glielo fornì un certo Barbaroux, un girondino, fornendole una lettera di raccomandazione da consegnare al deputato Duperret. La lettera che aveva come destinatario il Ministero degli Interni sarebbe servita per ottenere dallo stesso Ministro, dei documenti utili ad una sua amica emigrata, una certa Mademoiselle Forbin.    
Arrivata a Parigi giovedì 11 luglio verso mezzogiorno, scese al numero 17 di rue des Vieux-Augustins, all’hotel Providence nel quale si riposò fino all’indomani. Prima di recarsi all’incontro con Duperret, ella scrisse a Marat un biglietto in cui gli chiedeva un abboccamento e lo pose nella posta di casa Marat. Accompagnata da Duperret al Ministero, egli non ottenne nulla, in quanto inviso, per le sue relazioni con i proscritti. Duperret si rammaricò di non poterle essere d’aiuto, e si congedò. Rimasta sola, dopo aver appreso che in Convenzione avevano chiesto la pena di morte per i Girondini, Charlotte entrò da un coltellinaio dove acquistò un lungo e acuminato coltello dal manico d’ebano, mentre in un negozio accanto, acquistò un cappello nero a nastrini verdi per dare meno nell’occhio con il suo berrettino bianco alla “caennaise”, poi fece ritorno in albergo, dove sperava di trovare la risposta di Marat.
Con rabbia, invece, apprese che Marat era malato. Una febbre continua gli bruciava il sangue, degenerando in una sorta di orrenda lebbrosità, contro la quale non c’era alcun rimedio dell’arte medica. Così Charlotte dovette, a malincuore, cambiare il suo piano, non più colpirlo mentre era nel pieno esercizio delle sue funzioni alla Convenzione, ma nella sua casa. Si recò così in Rue des Cordelierss dove risiedeva Marat. Verso le undici, mentre saliva le scale incontrò Catherine Evrard, sorella della fidanzata di Marat che, stante le condizioni precarie di salute di Marat, dissuase momentaneamente Charlotte, ella riuscì solo a farle recapitare una lettera formulata in modo da stuzzicare la curiosità del destinatario poiché prometteva di svelare i nomi di diversi Girondini fuggiti e radunatesi a Caen.
Tornata in albergo scrisse un secondo biglietto, nel caso fosse stata respinta una seconda volta. Esso diceva:
“Al cittadino Marat, Vi ho scritto questa mattina, Marat. Avete ricevuto la mia lettera? Non posso crederlo, poiché mi si rifiuta la vostra porta. Posso sperare un minuto d’udienza? Ve lo ripeto, arrivo da Caen. Devo rivelarvi segreti importantissimi per la salvezza della Repubblica. Peraltro sono perseguita per la causa della libertà. Sono sfortunata; è sufficiente per aver diritto al vostro patriottismo.”
Senza attendere la risposta, Charlotte Corday uscì dalla sua camera d’albergo alle 19.00 e arrivò al civico 18 di Rue des Cordeliers
Alla sera dello stesso giorno ritornò, con la lettera nella tasca, nuovamente in Rue des Cordeliers. Le due sorelle Evrard, Catherine e Simonne vegliavano su di lui, con l’amore e il fanatismo, meglio che dei gendarmi. La prima rifiutò l’ingresso alla giovane Normanna, che parlò a lungo con lei. Marat, udendo una voce fresca e femminile, comprendendo che era colei che gli aveva scritto al mattino, disse a Catherine d’introdurla.
Marat era nel suo bagno, con la testa avviluppata in un asciugamano; un sudicio panno ricopriva la vasca; su un lato vi era una specie di comodino, ricavato da quattro assi messe assieme sulla cui base vi erano alcuni fogli, un calamaio e una penna d’oca.
Egli volle sapere ciò che avveniva a Caen, chiese quindi a Charlotte i nomi dei deputati rifugiati in quella città e quelli degli amministratori dei dipartimenti del Calvados e dell’Eure. Man mano che Charlotte parlava, Marat scriveva, e quando ebbe finito, esclamò:
<<Fra pochi giorni andranno alla ghigliottina!>>
Furono queste ultime parole che accesero in Charlotte Corday la scintilla che le fece brandire l’arma. Si avvicinò alla tinozza e, tratto il coltello, lo sferrò con forza nel petto di Marat. Il colpo fu assestato con tanto vigore e odio, che la lama penetrò nel petto fino al manico.
Marat ebbe solo il tempo di esclamare:
<<A moi, ma chère amie!>> disse incredulo, chiese aiuto, e spirò.
Il suo grido fu udito da un certo Laurent Basse, che piegava i giornali in una stanza vicina, che subito si precipitò nell’appartamento di Marat. Catherine Evrard e sua sorella si precipitarono nella stanza. Charlotte Corday era in piedi davanti alla finestra, immobile, non faceva il minimo tentativo di fuggire. Il fattorino che era entrato come una furia nella stanza da bagno, la colpì con una seggiola e la gettò a terra. Charlotte si rialzò, ma Basse la afferrò alla vita e la scaraventò di nuovo al suolo, trattenendola sotto le ginocchia, mentre Catherine, e altre vicine, trasportarono Jean-Paul Marat sul suo letto. Anche alcune guardie nazionali che erano nelle vicinanze, avvertite, salirono e arrestarono la Corday.
Charlotte, mentre veniva sospinta dalle guardie, passando accanto alla camera, dove giaceva Marat disteso sul letto, il cittadino Delafondrée un dentista, che era il suo principale affittuario, lo stava medicando, gli diede una rapida occhiata. Visto così, esangue, non pareva più quell’irresistibile seduttore, il grand’uomo, il liberatore del popolo. Bello, come poi lo avrebbe dipinto il suo amico Jacques-Louis David, Marat non lo era mai stato, né tantomeno nobile, era invece tarchiato, butterato in volto, con la pelle che si squamava per le continue febbri.
Solo a notte fonda, per salvarla dalla folla che l’avrebbe voluta a pezzi, i gendarmi, riuscirono a condurla in carrozza alla prigione dell’Abbaye dove i membri del Comitato di sicurezza generale la interrogarono parecchie volte, senza che mai venne meno la sua fermezza. Orgogliosa di ciò che aveva fatto, a tutti gli interrogatori che fu successivamente sottoposta, sia da parte del commissario Guellard, sia dal presidente del tribunale rivoluzionario Montanè che dal procuratore capo Fouquier-Tinville, tristemente noto per la violenza e l’ardore con cui perseguitava gli imputati. Tutto ciò non impedì a Corday di mantenere una fermezza e una tenacia, senza mai abbassare lo sguardo o proferire parole che non fossero correlate alla sua azione compiuta; “Per liberare il popolo da un mostro”. Questo era ciò che ripeteva con determinazione.
Henri Sanson era il noto boia di Parigi, egli quel mercoledì 17 luglio 1793, come tante altre persone accorse da tutta Parigi, si aggirava fin dalla mattina davanti al tribunale rivoluzionario. Verso un’ora incerta del pomeriggio, apprese da un cittadino che ne discendeva le scale, che la cittadina Corday, di Caen, cospiratrice e assassina del cittadino Marat, deputato alla Convenzione era stata condannata. Un urlo festante si levò dalla folla. Sanson allora andò nella camera dei testimoni, da lì il cittadino Richard lo condusse nella camera della condannata. I cittadini Tirasse e Monnier, uscieri del tribunale, entrarono per primi, Sanson rimase sulla porta.
Ora è lo stesso Sanson che parla nelle sue memorie.
<<C’erano nella stanza della condannata due persone, un gendarme e un cittadino che le stava facendo un ritratto. Ella era seduta sopra una seggiola e scriveva su un foglio, poggiato su un libro. La donna non guardò gli uscieri, ma bensì me, e mi fece cenno con la mano d’aspettare. A farle il ritratto era il cittadino pittore Jean Jacques Hauer che, con tratti rapidi, aveva dipinto quel volto austero che di lì a poco sarebbe caduto dentro un cesto. Quando il ritratto fu terminato, i cittadini Tirasse e Monnier cominciarono la lettura della sentenza, e durante quel tempo, la cittadina Corday piegò la lettera che aveva appena scritto, e la consegnò al cittadino Monnier pregandolo di farla recapitare a suo padre. Fu allora che si alzò e spostò la sua seggiola in mezzo alla stanza. Sedette, si tolse la cuffia, sciolse i capelli color castano chiaro, che erano molto lunghi e molto belli, e mi fece segno di tagliarli, come era usanza per le condannate a morte. Quando i capelli furono tagliati, ella ne diede una parte al cittadino pittore, il resto al cittadino Richard per la sua sposa. Io le diedi la camicia rossa, quella dei condannati a morte, che ella infilò e si aggiustò da sé. Quando mi accingevo a legarle i polsi, ella mi chiese se poteva tenere i guanti, facendomi notare le cicatrici ai polsi, procuratele da quelli che l’avevano arrestata. Le dissi che poteva fare ciò che voleva, io le avrei legato i polsi senza farle alcun male. Ella allora mi sorrise e mi disse: “Difatti, essi non ci hanno la vostra abitudine”, e mi tese le sue mani nude.
Quando salimmo nella carretta, la invitai a sedersi su uno dei due sedili, ma ella si rifiutò, le diedi ragione, in tal modo le scosse del veicolo l’avrebbero meno stancata, così lei sorrise ma non mi rispose. Appena uscimmo dall’Arcata furono in molti quelli che le gridarono dietro. Ma più si procedeva e meno numerosi erano i gridatori. Soltanto quelli che camminavano vicini a noi insultavano la condannata e le rinfacciavano la morte di Marat.>>
Henry Sanson, continua il suo racconto.
<<C’era tanta gente sulla strada che noi avanzavamo bel lentamente. Poiché ella aveva sospirato, credetti di poterle dire: – Trovate che si va a lungo, è vero? – Ella mi rispose: “Bah! Siamo pur sempre sicuri di arrivare”, e la sua voce era tanto calma e modulata come nella prigione. Nel momento che arrivammo sulla piazza della Rivoluzione, mi alzai e mi collocai dinanzi a lei per impedirle di vedere la ghigliottina. Ma ella si sporse innanzi per guardare, e mi disse: “Ho bene il diritto di essere curiosa; non l’ho mai veduta!” Credevo tuttavia che la sua curiosità la facesse impallidire, ma questo non durò che un momento, e quasi subito il viso di lei riacquistò il suo colorito, che era molto vivace.
Nell’istante che noi scendemmo dalla carretta, mi accorsi che degli sconosciuti si erano mescolati ai miei uomini. Mentre mi rivolgevo ai gendarmi perché mi aiutassero a sgomberare il posto, la condannata era salita agilmente sul patibolo. Giunta appena sulla piattaforma, dopo che Fermin, il mio aiutante, le ebbe levato prestamente il suo fisciù, ella si precipitò da sé sull’asse mobile e vi fu assicurata con le cinghie. Benché non fossi al mio posto, pensai che fosse stato barbaro di prolungare un attimo di più l’agonia di questa coraggiosa donna, e feci segno a Fermin, che si trovava presso l’asta di sinistra, di far scendere la lama. Mi trovavo ancora ai piedi del patibolo, quando uno di coloro che avevano voluto immischiarsi di ciò che non li riguardava, un carpentiere di nome Legros, il quale nella giornata aveva lavorato a riparare la ghigliottina, avendo raccolto la testa della cittadina Corday, la mostrò al popolo. Io son pure abituato a questa sorte di spettacoli, tuttavia ebbi paura. Mi pareva che quegli occhi semiaperti fossero fissi su me e che io vi trovassi ancora quella dolcezza penetrante e irresistibile che mi aveva tanto stupito. Talché gli ripresi la testa. Furono soltanto i mormorii che sentii intorno a me a farmi apprendere che lo scellerato aveva schiaffeggiato la testa, furono gli altri ad assicurarmi che essa aveva arrossito sotto questo insulto.>> (1)
Il nonno di Henri protestò presso i giornali che avevano attribuito a uno dei suoi aiutanti l’oltraggio dello schiaffo alla testa della Corday. Il tribunale rivoluzionario fece giustizia, arrestò il carpentiere Legros e gli rivalse una pubblica e severa rimostranza.
 
1- Adolph Thiers, “Le memorie del carnefice di Parigi”, (Henry Sanson il boia di Charlotte Corday). Capitolo “Charlotte Corday” da pagina 232 a pagina 240.
Featured image, Charlotte Corday (Arturo Michelena, 1899).

venerdì 12 aprile 2013

Malinconia, ovvero le bufere dell’anima

Malinconia, ovvero le bufere dell’anima

 
di Riccardo Alberto Quattrini.
  
All’inizio tutte le cose erano insieme, poi venne la mente e le dispose in ordine.”
Anassagora.
Adagiare sul fondo del bicchiere alcune foglie di menta, aggiungere zucchero e qualche spruzzatina di soda poi, aiutandosi con un cucchiaio da cocktail lungo, sciogliere adagio lo zucchero avendo cura di schiacciare contemporaneamente le foglie di menta, in modo che possano rilasciare tutto il loro aroma. Mescolare l’intruglio con rhum e abbondante succo di limone. Questo drink, apprezzato da uno dei più grandi romanzieri americani, oltre a rendere famosa la Bodeguita del Medio Bar all’Avana, serviva ad attenuare i momenti tristi e sedare le angosce derivanti dalla sua depressione. Si chiamava Mojito, ed era la bevanda preferita da Ernest Hemingway durante il suo soggiorno cubano. Quel “mal di vivere”, mescolandosi col rhum, quasi per incanto esaltava le passioni e sollecitava il celebre scrittore a scrutare in quel vortice di pensieri e di paure da cui estrarre la sua capacità creativa.
“La malinconia è la gioia di sentirsi tristi” diceva Victor Hugo. Malinconia deriva dal greco mélas, mélanos che significa nero, e cholé bile, pertanto bile nera. Il termine fu usato per la prima volta da Ippocrate nel IV secolo a.C.. Egli applicò lo studio della melanconia a un importante teoria definita dottrina degli umori. Tale teoria, assai singolare e fantasiosa, si basava su quattro sostanze presenti nell’organismo umano secondo cui dipendeva lo stato di benessere. Questi fluidi, altrimenti detti umori, ovvero: sangue, bile, atrabile (o bile nera) e flegma (pitùita-muco). Ciascuna sostanza è responsabile di un particolare temperamento: sanguineus, cholericus, phlegmaticus, melancholicus. Malinconia, mestizia, inquietudine. Forse è soltanto uno dei tanti stereotipi privi di reale fondamento, eppure il nesso profondo del letterato introverso, solitario, emarginato da una società frenetica e indifferente alla bellezza, portavoce del disagio d’intere epoche.
La realtà è che l’uomo e la natura stessa sono bipolari, il giorno e la notte, l’estate e l’inverno, l’infanzia e la vecchiaia – scrive lo psichiatra Athanasios Koukopoulos – trascorrono fra infinite variazioni dell’umore, fra grandi gioie ed esaltazioni, grandi dolori e abbattimenti. Ma solo alcune persone predisposte soffrono di depressione e di mania.”Quindi di umori bipolari è fatto l’uomo e se pensiamo che, negli anni bui dell’ultimo conflitto mondiale, tutta l’umanità era affidata nelle mani di cinque capi di Stato più o meno bipolari, ovvero affetti da sindrome maniaco-depressiva: Mussolini, Hitler, Churchill, Stalin e Franklin Delano Roosevelt e Lincoln. Ma la compagnia di tali maniaco-depressivi è lunga; si va dall’imperatore Adriano, a Napoleone e Robespierre. Ai poeti come Byron, Shelley, Whitman, Baudelaire, Tasso, Alfieri e il malinconico per eccellenza: Giacomo Leopardi. Scrittori come Balzac, Hemingway e Gogol. Poi musicisti come Rossini, Mahler e Ciaikovskij, non potevano certamente mancare pittori come Michelangelo, Caravaggio e Van Gogh. Tutti splenetici.
La malinconia o melanconia, nel linguaggio moderno la si usa per indicare indifferentemente cose alquanto diverse tra loro. Nella cultura medica viene indicata come segnale della depressione.
Da cosa deriva quello strano malessere che spesso ci accompagna nella quotidianità. Perché ciò che possediamo non ci rende più felici? Per quale ragione non abbiamo più nessun interesse per qualsiasi cosa? Gli antichi la descrivono come “afflizione dell’anima” affine alla tristezza, ma non così dolorosa, e anche se cupa e profonda porta con se una certa tenerezza e dolcezza. Inoltre, a differenza della tristezza, che sfiora la depressione e non induce alla riflessione, la malinconia si alimenta di un pensiero più intimo forse più a contatto con le “ragioni” del cuore.
Ma la grande tragedia di questo mal-de vivre è, il suicidio. Non si fa che cercare la via migliore per morire: corda, veleno per topi, monossido di carbonio, barbiturici. Questa perdita di ogni speranza, questa sofferenza del vivere, rendono l’idea della morte una liberazione, praticamente, l’unica via.
Scriveva Gustave Flaubert: “La gente si meraviglia che il suicida non consideri il dolore degli altri. Chi pensa questo ignora che, al contrario si crede di fare il bene degli altri.”
Van Gogh prima di morire, scrisse al fratello Theo: “Non soffrire, l’ho fatto perché é meglio per tutti.”
C’è però chi, di fronte a un animo in tumulto, riesce a vederne un lato positivo. Questa è Madre Teresa di Calcutta che dice: “La sofferenza non scomparirà mai del tutto dalla nostra vita. Non abbiate, quindi, paura. Se la sappiamo sfruttare diventa un grande veicolo d’amore.”
Sofferenza?
Che centra ci si chiederà. Stiamo parlando di malinconia e la intendiamo comunemente come una forma di delicata e intima mestizia, un languore, un aleggiante pensiero opprimente, accompagnato da sfiducia e avvilimento. Ma perché, tutto ciò, non comporta una sofferenza? Il termine “sofferenza” non indica forse, la nostra interiorità quando è dilaniata e dibattuta? E questi tormenti intimi, molto spesso, non avvengono per cause inspiegabili, incomprensibili, e giungono quando meno ce li aspettiamo? E dunque ne soffriamo.
Anche un fatto apparentemente banale, momentaneo, all’inizio ci può apparire tanto grave quanto irrisolvibile, basta ad affliggerci, a produrre in noi ansia, mancanza di tranquillità.
C’è un detto americano che interpreta perfettamente quella sofferenza e dice: “Preoccuparsi è come mettere le nubi di domani davanti al sole di oggi”.
Featured image, Anassagora e Pericle, Augustin-Louis Belle (1757 – 1841)

giovedì 11 aprile 2013

ARTEMISIA GENTILESCHI

 
 

ARTEMISIA GENTILESCHI, una femminista ante litteram

 
di Riccardo Alberto Quattrini. Artemisia Gentileschi, nasce a Roma l’8 luglio 1593, pittrice intensa e tragica del Seicento italiano, tutti squarci caravaggeschi e nudi sodi. La sua storia di donna, che per ciò che l’è capitato avrebbe potuto soccombere e privarci per sempre di questa grande e geniale pittrice; invece essa col suo grande carisma e dono, non soltanto fu capace di diventata una grande e sconfinata pittrice, ma divenne l’eterno simbolo di una emancipazione che anticipava tutti i tempi di allora. Inoltre superbamente intelligente, bella ed elegante, epicurea e terribilmente sensuale, aveva tutte le caratteristiche per intraprendere una strada luminosa, anche se complessa e piena di ostacoli, per una donna di quei tempi decisa come mai altre si videro. Rimase orfana della madre, Prudenzia Montone a soli dodici anni. A diciassette, il 6 maggio 1611, fu stuprata nella casa di via della Croce da un amico del padre, il pittore Agostino Tassi. Artemisia aveva capelli ricci, castani tendenti al rosso, fronte altissima, naso diritto, labbra piccole e ben disegnate. Nel milleseicento essere una bella ragazza e volersi affermare come una brava pittrice, era cosa assai più complicata di oggi. Una ragazza non poteva entrare in una scuola di pittura o decidere di fare carriera, una giovane donna non poteva pensare di sopravvivere ai pettegolezzi, alla cattiva fama, ai pregiudizi, una figlia non poteva ribellarsi al destino scelto per lei dal padre, il pittore Orazio Gentileschi che, pur amandola morbosamente e riconoscendone il talento, le impediva perfino di affacciarsi alla finestra, e non poteva decidere lei la propria vita sentimentale. Artemisia si ribellò a tutto questo. Artemisia era una donna che lottava per affermare se stessa.
<<Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne.>>
E’ ciò che disse Artemisia Gentileschi nel 1612, quando si trovò nella corte di giustizia del papa, davanti a uno squadrone di giudici, che parlano in latino e l’avevano anche sottoposta a una tortura chiamata Sibilla che consisteva nel stringerle i pollici in modo da farla indurre a dire la verità, metodo che avrebbe potuto impedirle di usare le dita per sempre; per una pittrice del suo talento sarebbe stata una perdita inimmaginabile. Quel processo avvenne molti mesi dopo lo stupro subito. Il Tassi, infatti, dopo averla aggredita, le assicurò il suo amore e le promise di sposarla per rimediare al disonore. Ma non le disse che egli teneva una moglie a Livorno e che manteneva un’altra relazione con la sorella della moglie, la cognata, cosa all’epoca considerata incestuosa. Artemisia decise così di portare avanti la relazione con l’Agostino. Finché non scoprì come stavano veramente le cose e raccontò tutto al padre Orazio che pensò, a questo punto, di denunciare l’amico indegno. Il processo iniziato a marzo si protrasse fino al 27 novembre 1612 dove l’Agostino Tassi fu condannato per la deflorazione di Artemisia Gentileschi, corruzione dei testimoni e la diffamazione di Orazio Gentileschi. Il giudice Gerolamo Felice gli impose di scegliere tra cinque anni di lavori forzati e l’esilio da Roma. Il giorno seguente Tassi prese la propria decisione e scelse l’esilio, aiutato dal capitano Pietro Paolo Arcamanni che garantì per lui.
Non potendo il Tassi sposarla, il padre Orazio le rimediò un marito per ripulire l’onta, certo Pierantonio Stiattesi, un mediocre pittore e nuova città, Firenze. Ma il suo destino era già segnato da qualche tempo. Per chi, come lei, a sei anni giocava con i colori del padre, e per il quale posava, il destino si era già dipinto, con la forza dirompente dei chiaro-scuri e delle torsioni plastiche caravaggesche e col coraggio di soggetti forti, sangue e cupidigia maschile.
Un suo primo dipinto, Susanna e i vecchioni, che è datato 1610. Nel quadro gli uomini che spiano Susanna non sono i vecchi che narra la Bibbia, perché uno di loro esibisce una capigliatura corvina, mentre il più anziano ha le caratteristiche di un uomo sì maturo, ma non certamente vecchio. In questo capolavoro non c’è la violenza che si può riscontrare nei quadri successivi, ma la gestualità della ragazza insidiata rileva un fastidio, come a voler scacciare insetti ronzanti, più che un’indignazione. Se, come sostiene qualcuno, i due personaggi suggeriscono un Agostino Tassi e suo padre Orazio, morbosamente attaccato alla figlia; forse giacché più di una volta l’aveva usata come modella, dipingendola nuda, alcune voci vogliono che il rapporto fra i due sia segnato dall’incesto. Pertanto amici e sodali al punto che, per risolvere le loro questioni private, esposero la giovane pittrice al pubblico ludibrio, allora quest’opera è altamente simbolica. Potrebbe essere stata una sorta di premonizione se la data, ancora in discussione, fosse quella del 1610, oppure se l’opera, come sembra, si dovesse postdatare, saremmo di fronte a un autentico sfogo catartico.
Mentre svezza i figlioli: Giovanni Battista, Cristofano, Prudenzia e Lisabella. Artemisia riprende a dipingere ed elabora così una propria tecnica: s’ispira a quella del Caravaggio, molte volte giunto nella bottega del padre a chiedere in prestito colori e pennelli, e del padre Orazio, suo maestro. Predilige per le tinte più violente con le quali crea i suoi magistrali giochi di luce ed ombre tendenti a risaltare qualsiasi particolare, come stoffe e drappeggi. I suoi personaggi sono caratterizzati da un maggiore realismo dovuto alla forte tensione che, inconsciamente, attraversa la sua figura di donna. I suoi dipinti risentono della violenza subita ed è come se solo così potesse liberarsi della rabbia. Soprattutto è la serie dedicata a Giuditta che decapita Oloferne a colpire l’attenzione. Infatti, non viene rappresentato solo l’atto dell’assassinio, ma anche ciò che accade dopo ovvero i momenti prima della fuga. Lavora per la corte medicea e per diverse committenze private: Artemisia pitturessa tra gli artisti salariati dal granduca. Nel 1616 è la prima donna a essere iscritta all’Accademia del Disegno di Firenze. E’ lì, che Artemisia incontra Francesco Maria Maringhi, un gentiluomo fiorentino, suo coetaneo; tra i due inizia un’intensa relazione amorosa. Quando Artemisia e il marito lasciano improvvisamente Firenze nel 1620 per sfuggire ai debiti e si rifugiano a Roma, la donna inizia un serrato carteggio d’amore e d’interesse con l’amante Maringhi.
A Roma Artemisia vive nel quartiere di Santa Maria del Popolo e s’inserisce presto nel giro della comunità artistica romana. Il Maringhi la raggiunge, mentre Stiattesi lascia il tetto coniugale e scompare dalla sua vita. Tra il 1627 e il 1630 numerose testimonianze certificano un’intermittente presenza della Gentileschi a Venezia. Al suo soggiorno lagunare si fa risalire la sua ricca attività come pittrice di fiori e di nature morte. Artemisia in seguito, si trasferisce a Napoli dove spesso è vista in compagnia del Maringhi. Apprezzatissima dall’aristocrazia e dalla comunità artistica partenopea, Artemisia esegue ritratti, dipinti devozionali, grandi quadri da camera con soggetti tratti dalle Sacre Scritture e dalla storia antica.
La fama di Artemisia corre oramai per tutta l’Europa. Nel 1638 Artemisia raggiunge il padre a Londra, dove Orazio ci viveva già dal 1626 e la promuove presso la corte degli Stuart, tanto che Carlo I d’Inghilterra acquista alcune opere della pittrice. Dopo la morte del padre avvenuta nel 1639 Artemisia torna a Napoli, dove lo studio della pittrice è diventato una sorta di accademia: numerosi giovani pittori entusiasti, compartecipano alle sue commissioni. La Gentileschi oramai affermata e apprezzata, oltre che come pittrice, anche come donna di grande intelligenza e cultura, ha contatti epistolari con Galileo Galilei, col duca di Modena e il granduca di Toscana.
La data della morte di Artemisia non è stabilita con certezza, forse nel 1656. Sepolta nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini a Napoli sotto una lapide (oggi perduta) che recitava così: heic artimisia.
Featured image Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della Pittura, 1638-39, Royal Collection, Windsor.

sabato 6 aprile 2013

LIBERO ARBITRIO

LIBERO ARBITRIO

Ovvero siamo liberi delle nostre decisioni?



IL COPISTA, il primo romanzo di Riccardo Alberto Quattrini

IL COPISTA, il primo romanzo di Riccardo Alberto Quattrini

Il campanello sopra la porta risuonò con quel suo tipico timbro di biglia caduta ma subito controllata nella sua discesa.
<<Vengo!>> disse una voce proveniente dal seminterrato <<un attimo!>> ripeté mentre prendeva tre grosse risme dallo scaffale e le sistemava sulle braccia. Prese a risalire la scala a chiocciola che divideva il locale inferiore da quello superiore teneva, per abitudine, l’avambraccio destro appoggiato al corrimano, per bilanciare la risalita. <<Eccomi>>, disse e uscì dall’ultimo cerchio che lo riportò al piano del negozio. Una giovane donna sui trent’anni era appoggiata al lungo bancone, aveva posato sopra di esso una borsa di cuoio marrone. Attendeva.
<<Buongiorno>>, le disse l’uomo appoggiando le tre risme di carta sul banco, <<che posso fare per lei?>> le chiese mentre dalla radio appoggiata dietro il banco Robbye Williams cantava:
First you say you want me
Then you don’t want me really
Baby do I scare you
Am I talkin’ too freely.
L’uomo la spense scusandosi con la giovane donna. Lei, con una voce chiara, gli disse che poteva lasciarla pure accesa, la musica non le dava fastidio, anzi. L’uomo la riaccese.
I got no perspective
On the things that you lack
Baby I don’t care
Just lie on your back
Riprese a cantare Robbye Williams.
<<Vediamo se mi può aiutare>>, disse la giovane donna, mentre apriva la borsa e ne cavava una cartella rossa trattenuta da un elastico cui l’uomo diede una rapida occhiata. Tuttavia in quel momento, inspiegabilmente, si sentiva più attratto dallo sguardo di quella giovane donna, senza riuscire a spiegarsene il motivo. Non che fosse stato colpito per la sua particolare bellezza. Era magrissima, molto alta, i capelli neri, ben pettinati, un cappotto chiaro chiuso alla vita da una cintura che ne rimarcava ancora di più la snellezza. Teneva la testa in una certa posizione, leggermente inclinata verso destra, come se volesse percepire meglio tutti i suoni circostanti e, gli occhi, che sembravano l’ombra di un colore precedente, pareva avessero sofferto. <<Ecco>>, disse mostrandogli dei fogli con dei puntini strani impressi sulla pagina. <<Le dico subito che non è una scrittura primitiva; è solamente scritto in braille perché io sono cieca>>, lo disse come se per lei l’essere cieca fosse una cosa naturale. Ecco spiegato il motivo del perché la osservasse con un particolare e incomprensibile interesse.
Mi dispiace. Stava per dire, ricorrendo a uno dei più semplici termini che una persona possa usare, di fronte ad una circostanza infelice. Lei fu prontissima a zittirlo.
<<La prego>>, disse portandosi un dito sulle labbra, <<non dica niente, non mi compatisca più di quanto già la gente faccia, ogniqualvolta che sente della mia invalidità. Parliamo piuttosto di quello per cui sono venuta da lei. Va bene?>> gli chiese, accentuando l’inclinazione della testa. L’uomo, viste le premesse riprese dunque con un tono professionale.
<<Certamente. Mi dica allora cosa devo fare per soddisfarla.>>
<<Non penso sia così complicato accontentarmi>>, disse la giovane donna, posando i polpastrelli esperti e agili, su quei segni e li fece scorrere sicura. <<“Ombre nere sulla Laguna”>>, disse guardandolo con quegli occhi che sembravano capaci di vedere. <<Questo è il titolo del romanzo che ho scritto>>, e vi posò sopra la mano aperta, <<vorrei che lei me lo ribattesse a macchina.>>
<<Vuole dire che io dovrei…>>, disse l’uomo mentre guardava quei fogli, con qui puntini indecifrabili, che sapevano tanto di misterioso per chi non li sapeva decrittare, <<dovrei ribatterlo al computer?>>
<<Esatto. Perché lei un computer l’ha, non è vero?>> gli chiese piegando appena la testa da un lato.  
<<Certo che ho un computer. Anzi, più di uno se è per questo>>, e girò lo sguardo verso i due computer sistemati lungo il piano del bancone. Non gli era mai capitata una simile richiesta da quando aveva aperto quella copisteria, quattro anni prima, per cercare di raddrizzare per la seconda volta la sua vita. Gli avevano richiesto di ribattere tesi, tesine, o semplici ricerche su vari temi di studio, ma si era trattato sempre di persone vedenti. Gli avevano lasciato i loro manoscritti, i loro appunti e lui aveva provveduto a riscriverli in bella copia, senza errori e null’altro.
<<Allora cosa mi dice? Perché la sento indeciso>>, disse mentre la biglia sopra la porta lanciò il suo suono stonato. Entrò una donna giovane, con i capelli corti e neri, sovrastati da qualche ciocca bianca che le ricadeva sulla fronte ampia. Indossava un camice bianco, non perfettamente pulito, sotto al quale, era evidente, non portasse nient’altro che un reggiseno e un paio di slip. Guardò la donna con occhi interessati e indagatori, per poi posarli sull’uomo, come a cercare risposte che non giunsero, mentre lui, posando una mano sulle risme impilate, le tamburellò nervosamente.
<<Ciao Luca>>, disse la giovane parlando a bassa voce, come a voler porre l’accento che aveva intuito d’aver recato disturbo, entrando così incautamente.
<<Che c’è? Che vuoi?>> chiese Luca con un tono freddo, dondolando la testa e scrutandola con occhi che esprimevano disappunto per l’inopportuna visita.
<<Scusate! Scusatemi se vi ho interrotto>>, disse muovendo la mano in un saluto frettoloso, <<ci vediamo più tardi>>, disse, fece dietrofront e uscì, rilasciando una scia di lacca e coloranti. La donna alzò lievemente la testa e annusò l’aria.
<<Parrucchiera?>> domandò.
<<Esatto>>, disse Luca. <<E’ una shampista, viene spesso a trovarmi.>>
<<Perché lo dice con quell’inflessione seccata?>>
<<Perché è appiccicosa>>, disse Luca a giustificazione.
<<Non è appiccicosa. E’ forse innamorata di lei>>, disse. Luca batté una manata sulla risma di carte e rise.
<<Lei crede?>> le domandò. La donna annuì e sorrise appena. Luca si schiarì la voce, <<sarà>>, disse e subito proseguì, volendo chiudere quel pettegolezzo. <<Allora, ricapitoliamo. Lei ha scritto un romanzo con quel bel titolo>>, e schioccò le dita nel tentativo di ricordarselo. “Ombre nere …”.>> La giovane donna rise e scosse il capo.
<<“Ombre nere sulla Laguna”>>, lo corresse.
<<Ecco>>, disse Luca, <<quello lì. Che, badi bene è bellissimo. Sì perché anch’io amo scrivere>>, disse gettando lì la frase come se gli fosse scivolata dalle labbra.
<<Ah, bene. E ha già pubblicato?>> gli chiese.
<<Eh, magari. Oddio, un racconto in verità mi è stato pubblicato qualche anno fa su un giornale locale.>>
<<Lo vede. E’ già più avanti di me>>, disse sorridendo e mostrando una fossetta sulla guancia sinistra. <<Per me, invece, è il primo romanzo. E non so nemmeno se sarà pubblicato. Si figuri.>>
<<Ma lei lo ha almeno terminato, e le assicuro che posso immaginare la fatica che le sarà costata.>> La donna annuì con la testa e passò una mano sui fogli cui erano impressi quegli strani e incomprensibili puntini. <<C’è un solo problema>>, le disse mentre prendeva una sigaretta da un pacchetto che aveva cavato da una tasca della giacca. <<Fuma?>> le chiese. La donna scosse la testa. <<Le dà fastidio se fumo?>> le domandò. Lei alzò le spalle dicendo:
<<Penso che se accetterà di ribattere il manoscritto, non potrò certamente impedirle di fumare. E dunque…>> Luca stirò le labbra. <<Ma quale sarebbe il problema dunque?>> gli chiese.
<<Il problema è che non potremo lavorare durante l’apertura del negozio. Potremo farlo nell’intervallo, o dopo la chiusura serale.>> Luca osservò la giovane donna mentre rimetteva via i fogli. <<C’è qualche problema?>> domandò. <<Non le piace che si resti soli in negozio? Ha forse un marito o un fidanzato geloso?>> disse ironico.
<<O no. Assolutamente no, non è per questo>>, disse scuotendo la testa assumendo un’espressione seria, <<non faccia delle ipotesi sconsiderate, la prego>>, disse. A Luca gli sembrò esagerata la sua reazione, a quella che voleva essere solamente una battuta. 
<<Mi scusi, ma stavo semplicemente scherzando, non mi permetterei>>, disse Luca gettando il fumo verso il soffitto. Quando era seria come ora, aveva il viso magro ma le labbra erano ampie, carnose ben disegnate.
<<L’avevo capito>>, disse e sorrise quel tanto che bastò per formarle nuovamente quella fossetta sulla guancia sinistra che Luca trovò molto seducente, <<ma non c’è nessun marito né tantomeno un fidanzato geloso>>, disse e il sorriso le scomparve dalle labbra diventando seria, come a voler ricacciare via un ricordo spiacevole. Luca pensò che fosse meglio evitare altre frasi inopportune. Lei, guardandolo con quegli occhi senza luce disse:
<<Per me andrebbe bene lavorare negli intervalli. Non la sera. Abito a Codogno e per arrivare qua devo prendere il pullman. Non mi piace viaggiarci la sera tardi. Mi capisce vero?>>
<<Codogno?>> domandò Luca. <<E come mai è venuta sino a Lodi? A Codogno non ci sono copisterie?>>
<<Lo sapevo che me lo avrebbe chiesto. Sì, ci sono copisterie. Ma non volevo restare in quella cerchia e far sapere i fatti mie. Le basta?>> disse un po’ asciutta.
<<Certamente>>, disse Luca spegnendo il mozzicone nel posacenere già bel colmo.
<<Un’ultima cosa. Sa dirmi, all’incirca, quanto mi verrà a costare tutta la stesura?>>
<<Oh, non si preoccupi per quello ci metteremo d’accordo. Anzi, non sa quanto sono contento. Avrò così modo di scoprire come si scrive un romanzo.>> Lei scosse la testa.
<<C’è ben poco da scoprire. Non ci sono segreti nella stesura di un romanzo. Se però, vorrà farmi delle domande, sarò ben lieta, nei miei limiti, di darle delle risposte.>>
<<Perfetto. Quando vuole cominciare?>> le chiese, ma non ci fu il tempo per una risposta. La porta nuovamente si aprì, la biglia singhiozzò il suo suono disagiato. Un giovane entrò nel locale, indossava una T-shirt con sopra stampato: “I LOVE NY” Era alto e magrissimo, aveva i capelli spalmati di gel e tirati dritti come le punte delle matite.
<<Ciao Luca>>, disse giungendo accanto al bancone. 
<<Ciao Franco>>, fece di rimando, osservando la mano del giovane che stringeva dei fogli dattiloscritti. Luca li prese e si recò alla fotocopiatrice domandando semplicemente: <<Quante?>> Il giovane alzò il pollice e l’indice della mano destra. La fotocopiatrice entrò in funzione e un odore di ozono si sparse nel locale giungendo alle narici ricettive della giovane donna. <<Ecco>>, fece Luca consegnandogli i fogli fotocopiati. Si recò alla cassa, batté lo scontrino, prelevò i soldi, richiuse la cassa e salutò il giovane. La giovane donna nel frattempo era rimasta in attesa accanto al bancone. <<Eccomi>>, le disse una volta che il giovane se ne fu andato.
<<Allora siamo d’accordo per domani alle dodici, signor Luca?>>
<<D’accordo>>, affermò e le prese la mano dicendo: <<Luca Marco Veridiani. Piacere.>>
<<Margherita Ferri. Piacere>>, disse lei mentre dalla radio la voce di Max Gazzè cantava:
L’uomo più furbo del mondo
Fuma tre pacchi di sigari al giorno
Gli bruciano gli occhi dal fumo e dal pianto.
Luca rise.
<<Sento che ride>>, disse Margherita.
<<E’ per via della canzone.>>
Titolo: Il copista
Autore: Riccardo Alberto Quattrini
Prezzo: 12,99 €
ISBN: 9788860388094-EPUB
Editore: Neftasia
Sinossi: “Mai avrei creduto che nella mia vita mi potesse succedere una cosa simile, essere sbattuta in una fossa putrida e maleodorante facente parte di una vecchia porcilaia, usata fino a qualche anno prima, per la raccolta di sterco e urina dei maiali per concimare i campi”. Parla così Margherita Ferri, una ragazza sui trent’anni, che vive in un tranquillo paesino in provincia di Lodi. Resa cieca, dopo un incidente stradale, accadutole anni prima. Novella scrittrice, per sopperire al dramma. Il suo primo romanzo, tuttavia, la condurrà in una spirale senza fine, dove subirà ogni genere di coercizione: minacce, percosse, costrizioni, violenze, soprusi, perpetrate da degli individui senza scrupoli. Il primo, un giocatore accanito, indebitato fino al collo con uno strozzino, un nano malefico e crudele, chiamato Alvis nel giro, che si accompagna al suo guardaspalle, un gigante di oltre due metri, un rompi ossa detto Maciste. Il secondo un succube cognato titolare di una copisteria. Il ritrovamento di un’auto, di grossa cilindrata, completamente carbonizzata, la scomparsa di due donne, e in concomitanza di due uomini. Inizieranno così le indagini del maresciallo capo Carmine Bellantonio comandante, la caserma di Codogno e dell’ispettore di polizia, Fabrizio Messina del Commissariato di via Quarenghi a Milano. Investigando nella vita di questi due uomini, dopo lunghe indagini su personaggi coinvolti in vicende di strozzinaggio, gioco d’azzardo, sequestro di persona, e al ritrovamento di alcuni corpi in una vecchia porcilaia e di un furgone ripescato in una cava alla periferia di Milano. Quando le loro indagini, casualmente s’intrecceranno, riusciranno a comprenderne il movente, e la ragione che li rese così spietati.
Commento di Nicla Moretti: Il trillo di un campanello con il timbro di biglia caduta, una scala a chiocciola, un lungo bancone, risme sullo scaffale e una giovane donna con la sua borsa di cuoio. L’incipit di questo romanzo è senza dubbio accattivante. C’è atmosfera, vibra già qualcosa nell’aria. Ecco, sì, un attimo dopo la canzone alla radio di Robbie Williams. Una ragazza estrae dalla borsa dei fogli scritti in braille, perché è cieca. Qualcuno la osserva: un uomo. La fantasia del lettore galoppa come quella dello scrittore: regna una strana atmosfera nell’aria. Cosa succederà? Chi è il copista? Seguono cinquecentoquarantasette pagine scritte in maniera egregia che hanno ritmo, intreccio, pathos e trama inquietanti, sotto certi aspetti, nello scorrere della storia: la scomparsa di due donne e in concomitanza di due uomini, il ritrovamento di un’auto carbonizzata. Iniziano così le indagini del maresciallo Carmine Bellantonio e dell’ispettore di polizia Fabrizio Messina. Da qui la scoperta di persone coinvolte in vicende di strozzinaggio, sequestro di persona e gioco d’azzardo. E poi c’è Margherita, novella scrittrice, divenuta cieca dopo un incidente stradale… Lascio al lettore la scoperta di pagine dense di suspense e di attesa che rendono “Il copista” “un giallo” di indubbio valore, scritto da una penna duttile e dalla trama perfetta.
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